La Storia come Progetto di Comunicazione

Angela Volpini

Angela Volpini è nata nel 1940 a S. Margherita di Staffora in provincia di Pavia, dove tuttora vive. E’ stata protagonista di un’esperienza mistica straordinaria, avvenuta dal 1947 al 1956, che ancora bambina la catapultò al centro della cronaca e dell’attenzione di moltitudini di persone e di fedeli. Angela Volpini ha dedicato tutta la sua vita e le sue energie alla liberazione ed alla felicità dell’essere umano, per renderlo consapevole delle sue infinite possibilità di sviluppo e aiutarlo a riconoscere la felicità nella qualità della relazione con gli altri. Vive intensamente la sua esperienza mistica e diventa punto di riferimento per persone comuni e grandi personaggi, teologi, politici e sacerdoti quali Don Zeno, Padre Balducci, don Gianni Baget Bozzo, Jean Guitton, Salvator Dalì, Pier Paolo Pasolini e molti altri che hanno stretto profondi legami intellettuali e di amicizia con lei. Partecipa attivamente al Concilio Vaticano II come osservatrice e collaboratrice di vari gruppi di Vescovi. Per meglio proporre la sua innovativa visione dell’uomo e del mondo, nel 1958 Angela fonda il Centro culturale “Nova Cana”, quale luogo di confronto e di dialogo interculturale, per rendere realmente possibile il suo progetto, dedicandosi all’accoglienza e all’ascolto delle migliaia di persone che hanno visto in lei un riferimento sul piano umano e culturale.

 25/01/1986 – Associazione Famigliare Nova Cana, Casanova Staffora

La storia dell’uomo dimostra senza alcun dubbio che l’uomo non si è mai adeguato al dato , né a quello interno a sé, né a quello esterno. Al dato interno non ha ancora trovato soluzioni, ma la ricerca è tutt’altro che finita. La ricerca del senso di sé e della vita è sempre il sottofondo di tutte le sue esplorazioni, mentre il dato esterno (la realtà) ha tentato continuamente di adeguarlo a sé, alla sua sopravvivenza qualitativa.

Nel cammino evolutivo, il trascendimento del dato avviene solo quando l’umanità è ben certa di non perdere nulla, ma  al contrario di aggiungere qualcosa a se stessa. Mentre evoluzione  e conservazione sono fortemente connesse al livello di specie, al livello di individuo prevale l’esplorazione. 

Il riflettere sulle capacità di modificare la realtà attraverso azioni, non solo istintive ma anche pensate e coordinate, è probabilmente ciò che ha determinato l’evoluzione propriamente umana. 

Si può quindi dire che l’uomo si è evoluto in quanto alla specie sperimentandosi con e contro l’ambiente, con e contro i suoi simili. Tuttavia le sue azioni erano finalizzate fin dai primordi a sopravvivere non solo come specie ma anche come individuo. Ciò è dimostrato primo, nel non adeguarsi al dato, secondo, perché le specializzazioni che raggiunge non gli sono mai sufficienti. 

L’autosviluppo in tutte le direzioni appare sempre più come la caratteristica di questo strano animale chiamato ‘’uomo’’. La capacità di rinnovarsi continuamente e di fare di ogni traguardo un rilancio lo pone definitivamente fuori dalla specie animale e dalla ‘’natura’’ stessa e meglio non riducibile alle leggi di questa ‘’natura’’. Come hanno potuto i nostri progenitori fare ciò agli albori dell’esistenza quando non potevano disporre di un accumulo culturale reale cui attingere come facciamo noi?

Questo è il grande mistero, oppure un piccolo mistero a secondo dell’angolo di osservazione da cui ci poniamo. Questo mistero è grande se consideriamo la specie umana come qualsiasi altra specie animale, che ha come caratteristica evolutiva il raggiungimento delle funzioni riproduttive attraverso la stabilizzazione dei codici genetici con operazioni cicliche e ripetitive. Gli animali ‘’sanno’’ quando e come riprodursi, quando e come alimentarsi ma il fine delle loro operazioni, basta osservarli, invece di comunicare una presenza, individua l’assenza. 

In quanto individuo, l’operazione animale è una presenza concreta ma del tutto funzionale ad un’assenza, la specie per cui il singolo animale si sacrifica non è altro che possibilità astratta e se la vita trova il suo rinnovamento anche nell’animale non ha però il senso che lo trascende: la specie resta determinata continuità e non trova mai nella scelta dell’individuo la ‘’speciazione’’ che la renda nuova e creativa. Ma torniamo all’uomo. Come ha potuto l’uomo che nella sua biologia è altrettanto deterministicamente soggetto alla legge della specie rompere la ripetitività del codice genetico e dar inizio ad una creatura nuova? Questo è quello che chiamo il piccolo mistero.

L’uomo primitivo ha fatto esattamente quello che l’uomo del duemila può fare o non fare (certamente con una grande differenza di mezzi): scegliere di adeguarsi alla vita che lo precede (e che di fatto lo pone nella continuità della specie), oppure impossessarsi della vita che si trova ad avere o viverla come possibilità soggettiva originaria dando inizio ad una nuova creazione. 

La vita nell’uomo è dunque altra cosa dalla vita biologica dell’animale anche se non la può escludere. Nell’uomo la vita non è più ripetizione ma creazione di quello che non c’è, non è più adeguamento ma scelta, non è più relazione funzionale ma comunicazione di senso. Non è più continuità ma innovazione continua, non è più sofferenza ma gioia. È anche il fine della vita stessa. 

Dunque la vita che precede l’uomo, nell’uomo può trovare il suo fine come senso; o la sua fine come non senso che possiamo chiamare il nulla. 

Nell’uomo la vita dipende dalle sue capacità di creare o di distruggere. La vita trova una propria potenza nella continuità, questa fa da supporto all’atto ancora più vitale della creatività che avviene quando l’uomo, il soggetto della propria umanità, opera le sue scelte creative. Ed è ciò per cui inaugura nuove leggi che riguardano la soggettività, la creatività e le scelte. 

L’uomo si fa uomo nel non adeguarsi alle leggi della natura. Questo fatto lo pone in una solitudine di esistenza totale. Egli sa che oltre a trovare il senso di sé deve trovare anche il nuovo senso a tutte le cose. Sa che le sue azioni sono indivisibili dalla sua soggettività. Sa che la relazione funzionale lo spodesta dalla sua soggettività in quanto l’attenzione è  posta sull’operazione. Sa che ogni uomo è una specie a sé, è un mondo impenetrabile, di potenza creativa, di liberta di scelta, di significato e anche di solitudine. 

L’altro uomo è la propria immagine ma appunto solo immagine, la soggettività di lui è impenetrabile. La comunicazione tra i due soggetti avviene attraverso gli oggetti, l’intesa è sugli effetti e sulle operazioni ma questa intesa non riesce mai a far comunicare i due mondi unici nella loro soggettività, essa resta un problema ma aperto tutto da esplorare. 

Questo modo di comunicare fra gli esseri umani, è vero che ha permesso grandi realizzazioni e stabilito anche quanto c’è di comune fra gli stessi, ma ha messo anche in risalto quanto vi è di diverso, quanto l’altro sia totalmente altro da sé e quale impresa sia porsi in comunicazione con lui. L’interesse sulle cose e attraverso le cose è la pratica attraverso la quale si svolge e sviluppa la comunicazione umana, ma questa man mano che diventa più efficace diventa sempre più senza senso. 

Il senso, è ormai chiaro, sta nel poter comunicare se stesso all’altro. Ma come?

Nel passato, per risolvere l’insopprimibile bisogno dell’intercomunicazione ci si è rivolti al mito, poi a Dio. Soluzioni insufficienti, pure mediazioni, ma che vale la pena di prendere in esame.

Il mito servì da proiezione alla soggettività umana in modo da riconoscerla come comunanza di tutti gli uomini ma non servì a scoprirne le relazioni che la connotavano, servì solo come custode di questa peculiarità umana per cui, inchinandosi, ognuno riteneva sé e l’altro, mistero. 

Invece l’operazione fatta su Dio è diversa, perché nel concetto di Dio l’uomo scoprì la relazione: Dio rappresenta la massima evoluzione del concetto di soggettività. Egli infatti è l’essere per eccellenza, è il Creatore, è il Bene, è tutto ciò che l’uomo ha esplorato e costruito di sé e anche tutto quello che di sé vorrebbe creare. 

È soprattutto amore, penetrabile. Con Lui l’identificazione è possibile, in Dio l’uomo si riconosce per quello che è e per quello che vuol fare di sé, nell’attribuire a Dio l’amare come capacità di essere in comunione con tutti gli altri esseri, l’uomo ha progettato la natura e la qualità che vuol darsi. 

Dio è effettivamente una risposta completa alla soggettività umana in quanto concepito come capace di conciliare la soggettività assoluta con l’assoluta comunione con quanto è assoluto. In Dio l’uomo scopre la strada della comunicazione tra assoluti. Attraverso questa strada può incominciare la storia umana come storia del senso, come penetrabilità intersoggettiva, anche se faticosamente, con sbandamenti, esasperazioni, alienazioni, rinunce, rilanci, ecc.

L’ordinaria esperienza che gli uomini hanno della comunicazione è l’intesa sulle cose, sulle esperienze finalizzate a modificare l’ambiente e su questo riescono a relazionarsi, ma ciò non esaurisce la loro esigenza più fonda, la comunicazione intersoggettiva permane tutta da esperire. Nessuno ha avuto il coraggio di applicare a sé nella storia ciò che si è applicato a Dio. Talvolta accade, ma quando si applica alla propria soggettività ciò che si è applicato a Dio si dimentica che ciò che fa la storia o che fa la nostra soggettività storica, è l’amore: la relazione amorosa che dà contemporaneamente senso a sé e agli altri. La stessa azione d’amore veniente dal soggetto crea le condizioni del senso, del soggetto stesso nel suo essere in sé e nel suo essere nella storia. 

Soggettività e storicità sono le stesse cose se ci si concepisce soggetti in relazione, se invece ci si concepisce come ‘’puro essere’’, allora bisogna ricorrere per forza al ‘’dover essere’’ come compimento e significato di quel ‘’puro essere’’. Ma questa concezione ci toglie dalla storia e rende inutile la soggettività.

Il dover essere non è meglio del determinismo del codice genetico, peraltro già superato dalla stessa soggettività; esso ci obbliga inoltre a sottostare alle leggi evolutive non capendo più che fare della creatività e ci fa assumere il tempo come relativo, e l’infinito, anziché essere le continuata continuità del presente, ci troviamo a pensarlo come il tempo astratto della perfezione. 

Confusione tragica che rischia di azzerare tutte le conquiste umane, tutto lo sviluppo e soprattutto le conquiste qualitative della creatività e della scelta, riproponendo la vita dell’uomo molto al di sotto delle sue possibilità. 

Noi che potremmo vivere liberi perché attraverso la creatività possiamo rimuovere continuamente il dato, viviamo da schiavi perché temiamo di usare la nostra peculiare qualità in quanto non sappiamo dove esse ci possono portare. Con il dover essere depistiamo la creatività dell’essere, sulle cose, con la conclusione tragica che è proprio il dover essere a porre il nostro essere fuori della Storia. 

Se un dover essere esiste, questo non può che essere la comunicazione intersoggettiva che pone in relazione mondi esperiti. Ed è questa relazione che fa la storia.

La tesi del dover essere, di fatto, ci aliena dall’essere ciò che siamo e anziché porre il nostro permanere nella capacità di crearsi, lo pone nell’adeguamento ad un modello concettuale, anziché utilizzare la creatività come realizzazione dell’essere usa il tempo e la volontà come strumenti, ma il risultato è solo quello di alienare le stesse nostre soggettività originarie. Ciò in nome di una comunanza esperita come esigenza, riconosciuta mitologicamente e tradotta storicamente in principi normativi. 

Di fatto, ci poniamo come obiettivo ciò che siamo già soggettivamente, ma il vero problema storico che è la comunicazione intersoggettiva, lo ignoriamo del tutto. Il nostro apparire nella storia è nullificato assieme al nostro essere stesso dal nostro stesso concetto di divenire come essere anziché di creare la comunicazione. Che anzi, nell’uomo permane le scissione fra il suo essere soggettivo e l’oggettività del suo apparire nel mondo, a causa dell’irriducibile soggettività originaria che non si appiattisce mai nei modi d’essere prestabiliti, nelle formule, nelle norme, nelle intese operative o nella identificazione come specie, e soprattutto non accetta di porre la comunicazione intersoggettiva fuori della storia. 

L’io, che è una realtà, anche se non ancore comunicante non può che comunicarsi con il suo contenuto totale. Una comunicazione di ripiego su oggetti e azioni non può esprimere ciò che l’io è, quando l’io, dotato di capacità, non ha ancora espresso in progetto la sua manifestazione storica, perché l’ha vissuta come esigenza, come dover essere, come fine. Il suo apparire non è sufficiente a comprendere né ad essere compreso e penetrato. A Dio infatti, per riconoscergli la qualità di penetrare la nostra soggettività coscienziale, abbiamo dovuto riconoscergli il progetto della salvezza oltre alla qualità dell’amore: quella, storica; questa ontica. 

Se la coscienza soggettiva è capace di ricevere la comunicazione degli assoluti è altrettanto capace di emetterla. In realtà, l’uomo ha intuito che la comunicazione fra assoluti può avvenire a livello coscienziale e che questa può ricomporre la scissione fra soggettività e storia, fra ciò che è e ciò che appare, fra essere e divenire, ma c’è da rimuovere lo schema dei modelli sorti dalle esigenze, nei quali anziché vedere le proprie esigenze come proprie possibilità, si traducono quelle immediatamente in fini, delegando così il loro compimento a qualunque cosa altro da sé: l’alienazione mitica.

Tali modelli posti come fini ci impediscono l’esercizio della creatività, ci riportano all’adeguamento che fa dell’obiettivo il massimo vincolo, si spegne con ciò il creare che è la vita dell’essere soggettivo, e il comunicare diventa inutile perché non ha più il suo contenuto.

A questo punto provo a fare una ipotesi di comunicazione intersoggettiva: 

  • Io sono il soggetto del mio essere
  • Nessuno ha niente per interferire in quello che io stabilisco di essere 
  • Io voglio essere un soggetto comunicante
  • Il mio divenire non è di essere quel che già sono ma di essere comunicante. A ben guardare, non è neppure un divenire, ma un creare quel che non c’è: la relazione fra assoluti. 

Cosa comunico? Il mio universo soggettivo, ciò che continuamente creo in me, le dimensioni che do al mio essere. Gli altri assoluti sappiano che nel pormi in relazione ad essi rendo la storia, relazione. E rivelando me stessa come indivisibile fra ciò che in me stessa sono ed in relazione ad essi nel mio apparire comunicante, rivelo il mio progetto e compio la mia azione storica. 

Un tempo si diceva unità fra essere ed esistere, io preferisco dire coincidenza fra l’io e il noi, fra ciò che sono in me e ciò che sono per e con gli altri. Non è forse questo che fa la storia, la mia storia, la nostra storia? Non è forse questo che rende storico il mio essere soggettivo, visibile, godibile, sensibile, penetrabile? 

D’altronde a Dio noi abbiamo già riconosciuto simili processi (anche se li abbiamo chiamati attributi). Gli abbiamo riconosciuto la non necessità del divenire, in quanto è assoluto; gli abbiamo riconosciuto la necessità della relazione paritaria con altri assoluti e la necessità di creare possibilità di vita cosciente, continuamente, come esercizio del suo amore. Anche a Lui abbiamo riconosciuto che l’essere senza relazione è come il non essere. Gli abbiamo riconosciuto il progetto della salvezza come possibilità di entrare in comunione con chi ha scelto liberamente di salvarsi e di soffrire per chi non sviluppa questa possibilità. 

Ora si tratta di applicare al nostro essere soggettivo qualità e capacità che abbiamo già concepito attribuendole a Dio anziché macerarci nel far conciliare la purezza dell’essere con le ambiguità della storia. La conciliazione è comunque possibile solo se si cambia l’idea di storia. Si deve concepire la storia come progetto di comunicazione fra le soggettività degli esseri umani. 

Ciò che è l’esigenza di fondo della soggettività umana e che ne è anche il senso noi lo viviamo come angoscia, a volte come fine anziché trasformarlo in progetto. La storia non c’è senza il progetto di relazione, di comunicazione dei soggetti fra di loro, vi è solo tempo e ambiente, soggettività come possibilità senza storia, il tempo e l’ambiente non hanno altro segno che il loro relativo esserci. È solo l‘uomo che ha la possibilità di progettarsi il suo senso e con ciò darlo anche al tempo e all’ambiente. 

L’uomo dunque è stato capace di concepire il progetto di Dio e non il suo? O è davvero Dio che comunica il suo progetto alla coscienza personale di ogni uomo? Se è vera la prima ipotesi, è solo un problema di scelta e non di impotenza: l’uomo non ha che applicare a sé quanto ha detto di Dio; se è vera la seconda, a che scopo Dio ci comunica il suo progetto se non per averne in risposta il nostro? Sia che la progettualità l’abbia data l’uomo a Dio, o che sia stato Dio a darla all’uomo, la capacità dell’uomo a progettarsi resta. 

Ma cosa vuol dire progetto per un soggetto assoluto ed autosufficiente nella sua assolutezza se non originaria capacità di relazione, di comunicazione, di amore? 

È forse l’unica maniera, sia per Dio che per l’uomo, di apparire suscitando l’interesse dell’altro. Un apparire che fa dell’amore storia, e cancella la contraddizione fra soggettivo e oggettivo e rende compenetrabili l’io, il tu, il noi, senza distruggerli, distrugge invece la contraddizione fra l’essere e il divenire, fra il tempo e il non tempo stabilendo che il vero tempo è solo quello dell’esserci, che appunto perché soggetto del proprio essere comunicante diventa storico. 

Il progetto è dunque la comunicazione della nostra soggettività e la comunicazione è la storia.

Casanova Staffora, 25/01/l986