Confronto tra alcuni aspetti della cultura e della spiritualità Occidentale e alcuni aspetti della spiritualità Orientale.
A cura di Don Roberto Rondanina
Don Roberto Rondanina appartiene all’Associazione pubblica di fedeli I Ricostruttori nella preghiera della quale è l’attuale Responsabile Generale. Come presbitero è incardinato nella diocesi di Novara nel cui Seminario insegna filosofia.
Una necessaria premessa.
La storia della cultura può essere vista come un modo tipicamente occidentale e, relativamente recente, di affrontare la storia dal punto di vista, appunto, del processo e dello sviluppo culturale. Al centro di saggi di storia della cultura di studiosi di grande spessore quali J. Burckhardt, J. Huizinga, M. Weber, G. Mosse e tanti altri, troviamo la cultura Occidentale. Il confronto con l’Oriente preso in considerazione, soprattutto, nell’ambito della storia comparata delle religioni, dapprima, unicamente come fenomeno esterno al mondo occidentale, negli ultimi decenni è diventato confronto interno al mondo occidentale a motivo dell’attrazione esercitata su strati sempre più ampi di popolazione occidentale dalle pratiche religiose orientali. Significative conseguenze di questo fatto sono, a mio avviso, da una parte un rifiuto preconcetto (più di fatto che teorico) di qualsiasi forma di dialogo con ciò che si teme possa incrinare la propria identità religiosa e culturale e, dall’altra, la tendenza a generare vari tipi di sincretismo, con relativa perdita di confini, tra molti culturali diversi. Tendenza che, sua volta, finisce per impedire un autentico dialogo tra culture e spiritualità che proprio a motivo della propria diversità possono entrare in dialogo.
Qui prenderò in considerazione unicamente alcuni pochi aspetti di questo confronto tra Oriente e Occidente relativi alla visione dell’uomo e di Dio delle diverse aeree culturali al fine di una maggiore comprensione del clima spirituale e culturale attuale.
Non si tratta di trovare elementi a favore della (o delle) visione occidentale (dell’essere umano e della realtà) piuttosto che di quella (o quelle) orientale per sostenere la superiorità dell’una nei confronti dell’altra o viceversa. Si tratta, piuttosto, di cercare di comprendere qualcosa del cammino già fatto dall’umanità per orientare meglio il nostro futuro.
Come punto di partenza per questa riflessione prenderò spunto da una celebre parabola di Gesù, quella nota come parabola dei talenti (Mt 25, 14 – 30).
La narrazione evangelica che si serve del linguaggio apocalittico proprio della cultura religiosa ebraica del tempo di Gesù, restituisce una concezione estremamente responsabilizzante, positiva ed evolutiva della persona e della storia umana. Nella parabola si narra di un padrone che prima di partire per un viaggio, affida a tre servi dei talenti. Al primo cinque, al secondo due e al terzo uno. I primi due servi fanno fruttare, raddoppiandoli, i talenti ricevuti e vengono premiati dal padrone al suo ritorno, mentre l’ultimo servo nasconde il talento ricevuto e verrà punito dal padrone. A lui verrà tolto quell’unico talento e dato a chi ne ha già dieci. La conclusione, apparentemente, ingiusta della parabola sarà: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 25, 29). Senza entrare nei tanti particolari, per quanto interessanti, di questo racconto, mi limito a raccogliere tre elementi utili per la nostra riflessione.
- Dalla parabola si evince che l’uomo non è predeterminato nella sua fisionomia umana – spirituale. Questa si costituisce a partire dalle scelte che ciascuno fa nel corso della sua esistenza, sviluppando, più o meno, i propri talenti e le proprie capacità.
- Il padrone (immagine – simbolo del Creatore) dona dei talenti che possono essere moltiplicati e ne va. Non controlla la situazione. Tornerà in scena solo alla fine per vedere che cosa i servi abbiamo fatto dei talenti ricevuti.
- Ciò che impedisce al terzo servo di far fruttare il proprio talento è l’immagine negativa che si è fatta del padrone (Dio) come di uomo duro che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. Immagine che lo conduce, per paura, a nascondere il proprio talento. La paura che nasce da una falsa immagine di Dio si riflette nell’incapacità di fidarsi delle proprie capacità e, quindi, in una immagine negativa di sé. Immagine negativa di sé e di Dio si sostengono, negativamente, a vicenda. Potremmo dire che nel terzo servitore si esprime la visione del Divino e dell’uomo, forse, più radicata nell’umanità. Una concezione nel segno della ambiguità.
Come sottolineato dai maggiori studiosi delle religioni antiche (Eliade ed altri) tutte o quasi le esperienze religiose arcaiche sono nel segno della ambiguità. Il Divino è percepito, nello stesso tempo, come fonte della vita, ma anche della morte, della pace, ma anche della guerra … Ingraziarsi il Divino, gli Dei, le Forze Superiori costituiva la principale finalità dei riti antichi. Le trasgressioni nei confronti degli Dei dovevano essere espiate per evitare punizioni esemplari, per impedire che il lato oscuro della Divinità prendesse il sopravvento nei confronti di quello luminoso e positivo. Un po’ tutte le culture religiose antiche sono attraversate da questa inquietudine nei confronti di una realtà Divina costituita da una polarità di Luce e oscurità variamente articolata nelle diverse tradizioni. L’aspetto sacrificale (i sacrifici umani sono attestati in quasi tutte le culture antiche almeno nelle fasi più arcaiche) è al centro della pratica religiosa antica sia in Occidente che in Oriente. La polarità Luce – Tenebre, Bene e male propria del visone del Divino, si riflette, inoltre, nella visione dell’uomo a sua volta interpretato come realtà polare di luce e oscurità, bene e male. L’antropologia religiosa delle culture religiose arcaiche descrive questa ambivalenza umana, innanzitutto, in forme mitiche (nei miti della Mesopotamia per es. l’uomo ha in sé l’elemento spirituale che gli deriva dagli Dei del Cielo impastato con un elemento demoniaco che gli deriva da un demone primordiale, cose analoghe si possono ritrovare nel mondo greco e in altri contesti religiosi), per poi, in alcune tradizioni religiose, reinterpretare la medesima polarità e
ambiguità in forme concettuali e metafisiche (anima-corpo; spirito-materia; purusha-prakriti).
Tutte le grandi culture religiose (Ebraica; Indiane…) nel corso della loro storia hanno, peraltro, elaborato percorsi di interiorizzazione del sacrificio fino a interpretarlo, sia in Occidente che in Oriente, in termini spirituali come sacrificio di sé o di parti di sé celebrato nella propria interiorità.
I profeti maggiori di Israele hanno progressivamente relativizzato (in alcuni fino quasi a destituirlo totalmente di valore) e spiritualizzato il sacrificio materiale (Amore voglio e non sacrificio, dice Gesù riprendendo il profeta Osea). Discorso analogo si potrebbe fare per l’Oriente indiano (ma anche cinese …): le Upanisad costituiscono una interpretazione fortemente spiritualizzata dei Veda e il Buddhismo nella sua forma originaria rifiuterà del tutto la prospettiva sacrificale legata a ritualità esteriori reinterpretandola in termini di radicale interiorità.
Tutto questo per dire che le diverse culture religiose dell’umanità ( ho proposto solo alcuni esempi, ma se ne potrebbero fare molti altri ), tanto in Oriente quanto in Occidente, hanno visto, chi più chi meno, tanto nel Divino che nell’umano una ambivalenza e polarità di positivo e negativo tali da perpetuare e tramandare la convinzione che il male che c’è nell’uomo e nel mondo non sia solo la conseguenza di scelte sbagliate, ma conseguenza di una eredità di male di ordine, potremmo dire, metafisico. Riconducibile o ad una originaria trasgressione (Bibbia) o ad una caduta delle anime nei corpi (prospettiva platonica e gnostica …) o ad una caduta misteriosa nell’illusione della dualità (come in diverse scuole indiane tanto induiste che buddhiste) o ad un dualismo originario (Manicheismo) e ad altro ancora. Situazione, in ogni caso, segnata da negatività da cui l’essere umano solo attraverso, più o meno, difficili e complessi percorsi spirituali potrà liberarsi.
Da questo punto di vista, è arduo trovare culture religiose che abbiamo consegnato una visione dell’uomo e della realtà Divina esente da ambiguità ed è, altrettanto vero, che tanto in Oriente che nell’Occidente Ebraico – Cristiano si è assistito ad una sorta di evoluzione del pensiero religioso che ha portato ad una considerazione del Divino in termini esclusivamente positivi, peraltro, non sempre accompagnata da un cambiamento di prospettiva sull’uomo e sul mondo. La visione dell’uomo propria della parabola dei talenti (positiva, responsabilizzante ed evolutiva) a cui ho fatto cenno all’inizio, non mi sembra sia stata abbracciata integralmente in Occidente (anche se l’Occidente con la sua propensione unica a cambiare le condizioni della umana esistenza ne costituisce, a mio avviso, una, sia pur parziale, interpretazione), e, ancor meno, in Oriente.
Ciò detto, provo a presentare sinteticamente, quelle che, a mio parere, costituiscono le affinità e le differenze tra Occidente e Oriente (con tutti i limiti di categorie generiche come quelle di Occidente e Oriente) che maggiormente ci possono aiutare a fare chiarezza sulla situazione attuale dell’umanità in quella che si soliti, ormai, chiamare l’epoca post-moderna.
Affinità e differenze tra Oriente e Occidente.
L’affinità che desidero mettere in evidenza (ce ne sarebbero, ovviamente, altre) è riconducibile al problema che si trova a monte tanto della prospettiva religiosa delle diverse tradizioni Orientali che dell’Occidente di matrice Ebraica – Cristiana. Il problema che accomuna Oriente ed Occidente ( nelle proprie espressioni religiose più evolute) è proprio, a mio avviso, quello di giustificare il problema del male metafisico ( inteso come radice misteriosa di ogni forma di sofferenza umana e del mondo: malattie, violenze, ingiustizie, solitudine, morte …) senza rimanere imprigionati nella visione arcaica, mai interamente superata, di una ambiguità del Divino responsabile tanto del bene che del male a cui si legano la prospettiva sacrificale propria di tutte le religioni arcaiche, anch’essa, mai del tutto superata e la concezione negativa dell’uomo e, non di rado, dell’intera creazione. La soluzione o le diverse soluzioni proposte dalle religioni orientali vanno nella direzione di una relativizzazione di tutto ciò che è umano e storico a vantaggio di una radicalizzazione dell’orientamento verso il Divino. Questa soluzione, variamente articolata nelle diverse scuole e tradizioni orientali, spiega, a mio avviso, quel senso di pace che l’Oriente, molto più, dell’Occidente, è capace di trasmettere all’inquieto uomo post – moderno e che dà ragione del persistente successo delle religioni orientali nel nostro Occidente in crisi di identità. È la pace dell’Eternità, della rinuncia a prendere realmente sul serio la vicenda umana e la sua storia. Una storia dolorosa, a causa dei tanti drammi che l’attraversano, se presa, per così dire, sul serio; ma una vicenda, quella storica-umana, che, se relativizzata e interpretata in termini di caduta (cfr. rapporto tra prakri ti e purusha nello Yaga classico) e/o illusione (concetto di maya nelle Upanisad), o di impermanenza e vacuità universale (cfr. Buddhismo sunyata) … perde di drammaticità e con essa di serietà. In questa prospettiva, tipica dell’Oriente, tutto si quieta. Si quieta perché tutto ciò che è umano e storico perde di consistenza e ciò che, unicamente, ha valore è il viaggio (normalmente attraverso innumerevoli vite) verso l’Origine Immemorabile da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna e da cui ci siamo illusoriamente separati.
A confronto dell’Oriente con il suo radicale riferimento all’Assoluto al di là di ogni forma, di ogni tempo e di ogni spazio, l’Occidente profondamente coinvolto in tutti i drammi della storia, non offre all’uomo moderno una prospettiva di pace altrettanto convincente come quella orientale. Non la offre o perché del tutto chiuso in un orizzonte materialistico e secolare o perché, in ambito religioso Cristiano, la pace costituisce un bene, soprattutto, escatologico. Un bene che può già essere anticipato nell’esperienza spirituale di singole persone e, in parte, di piccoli gruppi umani, ma un bene che in quanto Shalom (la nozione di pace nel cristianesimo deriva dallo shalom ebraico) è sostanzialmente legato al compimento della storia umana e al raggiungimento di quel Regno in cui l’umanità si riconoscerà come famiglia – comunità unita nell’amore all’interno di un comune destino storico. Un compimento alla cui realizzazione ogni essere umano è chiamato a collaborare rischiando i propri talenti (cfr. parabola dei talenti Mt 25, 14-30) e che ciascuno con le proprie scelte può accelerare o rallentare. Si tratta, con riferimento a Oriente e Occidente e al modo di percepire il dramma della storia e dell’aspirazione alla pace, essenzialmente di due prospettive e di due possibilità umane diverse. L’Oriente trova la pace, sostanzialmente, abbandonando la storia (in alcuni orientamenti spirituali in forma più radicale e in altri meno o, quantomeno, fortemente relativizzandola. L’Occidente, al contrario, vede nella pace – shalom il compimento della storia.
Per l’Oriente non è la storia lo scenario in cui ne va della vocazione dell’umanità e del singolo uomo, ma è il cammino ascetico – spirituale ( di cui la vicenda relazionale e storica umana offre solo un’occasione di purificazione e di riconoscimento dell’essenza spirituale) ad offrirci l’opportunità di liberarci dai legami della materia ( e con essa della storia ) e così entrare o, forse meglio, ritornare ( un ritorno spesso presentato come la raggiunta consapevolezza di non esservi mai usciti ) all’Unione con il Divino. Per alcuni orientamenti religiosi e spirituali dell’Oriente induista e buddhista non si potrebbe, forse, nemmeno dire se la visione dell’uomo sia positiva o negativa. Si dovrebbe, piuttosto, affermare che non ci troviamo più di fronte all’essere umano. L’essere umano inteso come persona unica a cui è affidata la responsabilità di costruire, attraverso le scelte della propria vita, la propria fisionomia umano – spirituale, per l’Oriente è una costruzione o del tutto illusoria o solo provvisoria.
La persona come frutto ed espressione della cultura biblica.
Come sottolineato, quasi unanimemente, dagli storici, l’Occidente è figlio della cultura greca e della cultura biblica. Culture che sono confluite nella visione cristiana dell’essere umano e delle diverse concezioni laiche secolarizzate dell’uomo e dell’esistenza proprie della Modernità attraverso una vicenda fatta di incontri e di scontri nel corso di una lunga storia che ancora prosegue. Come accennato prima, la concezione negativa dell’essere umano, accolta anche in alcune fasi della cultura biblica e cristiana e legata ad una concezione del Divino non esente da ambiguità, costituisce una eredità comune a gran parte delle culture arcaiche a motivo della precarietà dell’esistenza e delle difficoltà relative al problema della sofferenza e del male in senso metafisico. Questa situazione non deve far dimenticare le grandi novità che la visione biblica dell’essere umano, più ancora della cultura greca, ha portato nella storia dell’umanità. Innanzitutto, quella di un Dio (riconosciuto inizialmente solo come il Dio della propria tribù e, successivamente, come unico Creatore del mondo) che si è rivelato come un Dio liberatore di un popolo di schiavi e che mostra una predilezione per gli ultimi. Predilezione per gli ultimi, particolarmente, radicalizzata nel messaggio di Gesù (in parte anticipato dai profeti maggiori) e nella rivelazione di un Dio che si è fatto a sua volta Ultimo. Questo mettere al primo posto gli ultimi (molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi Mc 10, 28 – 31) scardinerà, gradualmente e non senza resistenze e fasi regressive, tutta la visione tradizionale dell’uomo dominante anche nelle culture più evolute come quella greca secondo la quale gli uomini non sono, affatto, tutti di pari dignità. Una differenza di dignità, spesso, giustificata nelle culture religiose extrabibliche (per es. greca e orientale) con il diverso grado di purificazione dell’anima al momento della nascita determinato dalla vicenda prenatale dell’anima o, comunque, del principio spirituale. Ma anche, più semplicemente, giustificata come differenza di dignità legata alla casta sociale di appartenenza presentata come Destino a cui non è lecito ribellarsi (cfr. poemi omerici e tragedia greca).
Dare uguale dignità a tutti gli esseri umani non sarebbe stato possibile, probabilmente, senza l’esperienza storica-religiosa ebraica di un Dio che si rivela attraverso la liberazione (dall’Egitto) di un popolo di schiavi. Una visione che si riflette nel codice morale del popolo ebraico come costante invito a ricordare, nel rapporto con lo straniero, che anche Israele è stato schiavo ed esule in terra straniera. Condizione che Israele (nell’interpretazione dei profeti) avrà sempre la tentazione di dimenticare (con il riflesso pratico di generare ingiustizie sociali) e che, proprio per questo, periodicamente dovrà sempre nuovamente sperimentare. È questa visione di un Dio che libera un popolo di schiavi a generare la convinzione che ogni essere umano, anche gli ultimi e, soprattutto, gli ultimi (tanti sono gli esempi che si potrebbero fare) hanno pari dignità e a generare un dinamismo storico orientato a realizzare nei fatti quella pari dignità promessa lottando contro gli ostacoli che ne impediscono e rallentano la realizzazione storica. L’esemplarità di Israele, da questo punto di vista, sta proprio nell’avere interpretato con crescente consapevolezza nel corso della sua lunga storia, pur tra tante contraddizioni e risorgenti radicalismi, la propria funzione di popolo profetico (ereditata successivamente dal Cristianesimo e dalla Chiesa) come vocazione a far maturare la storia dell’umanità verso la pienezza passando attraverso la liberazione da ogni forma di ingiustizia sociale e da ogni altra forma di schiavitù (cfr. Rosenzweig e altri). E’ sufficiente guardare a quanti intellettuali ebrei nella modernità siano stati all’origine di percorsi di emancipazione e liberazione storica per verificare quanto la visione ebraica e poi cristiana della storia come lungo cammino verso una nuova coscienza di umanità abbia plasmato la cultura occidentale. Ciò che ritengo importante evidenziare è che la concezione della storia come ambito di realizzazione della vocazione umana e la concezione della dell’essere umano come persona (individuo in relazione di apertura e amore con tutto ciò che c’è) siano strettamente legate. In breve, la storia ha importanza e senso unicamente se ogni essere umano ha importanza e senso. La storia come movimento in avanti ha senso se orientata a creare le condizioni perché ogni essere umano possa giungere a determinare se stesso sviluppando le proprie capacità e talenti (come affermato nella celebre parabola) al di fuori di ogni logica di forza, ma all’interno di una logica di condivisione e comunicazione delle proprie originalità nell’amore. Se invece, la dimensione individuale e personale dell’essere umano viene vista come una costruzione da demolire o decostruire per arrivare a riconoscere la propria vera essenza eterna collocata al di là di ogni provvisoria costruzione individuale e personale (Oriente), la storia come movimento verso una comunità di persone unite in comunione di amore perderà ogni significato. Una perdita di significato che conduce ad interpretare la storia come un teatro in cui personaggi appaiono e scompaiano all’interno di un Gioco Divino (Līlā, gioco cosmico Divino in cui tutti gli esseri vengono coinvolti in un perenne dinamismo di Manifestazione e Riassorbimento del Medesimo Infinito) che ha come unico vero Attore l’Assoluto stesso.
Alcune provvisorie conclusioni.
Prima ancora che un confronto tra due diverse Verità con pochi o molti elementi in comune (a seconda delle interpretazioni), quello tra Oriente (Induista e Buddhista, innanzitutto) ed Occidente di matrice Ebraica-Cristiana, è da vedere, a mio avviso, come un confronto tra due diverse possibilità esistenziali dell’essere umano.
Ciascuno di noi, infatti, può diventare pienamente sé stesso sviluppando talenti e scegliendo l’amore e arricchendo all’infinito la propria fisionomia umano – spirituale attraverso la relazione con gli altri e l’Altro, ma può anche scegliere che tutto ciò che lo definisce come persona unica non costituisca ciò che vale la pena sviluppare e valorizzare. Coerentemente con quest’ultima possibilità, possiamo decidere che solo l’Assoluto abbia valore e, di conseguenza, che tutto ciò che è umano, storico, terrestre abbia solo un significato provvisorio: quello di condurci là dove tutto ha origine e da cui, illusoriamente, ci siamo separati (prospettiva orientale). Una vita dedicata a questa, decostruzione, della propria umanità individuale e personale è, probabilmente, una realizzazione possibile. Anche se contrasta con la profonda esigenza umana di rimare per sempre come individualità personale all’interno di un universo di relazioni a loro volta personali, questa soluzione al problema del senso dell’esistenza tipica dell’Oriente mantiene ancora un senso umano: quello di trovare una risposta al problema della sofferenza.
In breve, la soluzione al problema del male e del dolore (problema che nelle culture religiose arcaiche è all’origine una concezione ambigua del Divino) propria, particolarmente (anche se non esclusivamente), dell’Oriente (con maggiore o minore radicalità nei diversi indirizzi spirituali) è di togliere di mezzo il soggetto stesso della sofferenza: l’individuo e la sua vicenda storica e di lasciare solo l’Assoluto. In questa prospettiva, infatti, è la dualità (in tutte le sue espressioni: soggetto-oggetto, finito-Infinito, uno-molteplice …) all’origine della sofferenza e il ritorno all’Uno (come anche nel neoplatonismo) costituisce la via radicale per il superamento della sofferenza
Al contrario, la risposta al problema del male e della sofferenza tipica dell’Occidente di matrice ebraico-cristiana, è, invece, quella di impegnarsi a far evolvere la storia, con l’apporto di tutte le generazioni umane e di ciascun essere umano, verso quell’universo personale in cui imparando a dare forma di amore alla realtà si mettono le condizioni per una comune, condivisa, felicità: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33).
A ciascuno, la scelta.